In Psychologie des conduites à projet (PUF, 2014) Jean-Pierre Boutinet - sua la voce “progetto” nel dizionario di Psicosociologia (Cortina 2005) - individua nove patologie che possono incidere negativamente sulla programmazione dei progetti.
Qui propongo una parafrasi delle possibili patologie individuate da Boutinet, con alcune mie raccomandazioni di lavoro, patologia per patologia (il post riprende, sviluppa, declina quanto avevo già scritto qui e qui).
I. Il progetto diviso o la negazione del progetto
Negli ultimi vent’anni, con la riscoperta del progetto (del lavorare per progetti), è stata messa in discussione la tradizionale, rigida divisione del lavoro tra fase di ideazione e fase di realizzazione: spesso, nello sviluppo del processo progettuale, l'attore che elabora e lo stesso che mette in opera.
In ogni caso, l’esperienza ci insegna che, in un progetto, il livello dell'ideazione è molto prossimo al livello della realizzazione (i due livelli addirittura si alternano, nella logica del Project Cycle Management): una caratteristica che garantisce flessibilità e predisposizione ad adattare il progetto, in corso d’opera e a seguito di monitoraggio e valutazione, alle esigenze che mano a mano emergono, predisponendolo a realizzare reale cambiamento.
Questa importante innovazione è (stata) spesso tradita: nell’ambito di molti progetti si conserva una divisione tecnica e sociale del lavoro tra coloro che "pensano" e coloro che "eseguono", generando contestualmente un grande spreco di energie e una sottomissione di coloro che realizzano nei confronti di coloro che progettano (con conseguente ricaduta negativa sulle potenzialità di innovazione e trasformazione in capo al progetto stesso).
Raccomandazioni: costituire, per ogni progetto, un gruppo di lavoro composto da persone con competenze complementari e interdisciplinari (oltre a esperti dello specifico ambito di intervento progettuale, anche tecnici del partnership management, della comunicazione, dell’amministrazione); attivare il gruppo sia nella fase di progettazione, sia in quella di co-management; coinvolgere nel gruppo di lavoro il “livello degli operatori”.
II. L'ingiunzione paradossale e i rischi di disillusione
Può accadere che attori individuali o collettivi siano spinti a ingaggiarsi in un progetto dalle istituzioni che li governano.
Il progetto è “imposto” da due ingiunzioni paradossali, che suonano come un duplice messaggio contraddittorio.
La prima ingiunzione suona più o meno così: "Vi impongo di creare". Ovvero, si trasforma la libertà di poter innovare (grazie al progetto) nel dovere di innovare. (Ad esempio, l'alunno deve avere un "progetto personale", l'organizzazione deve presentare un progetto di sviluppo o di impresa).
La seconda ingiunzione paradossale si può esplicitare così: "I tempi sono duri e non abbiamo più soluzioni da proporvi: vi chiediamo di costruirvi un progetto per il futuro". Il progetto diventa l'ultima spiaggia, la strada obbligata per superare le difficoltà. (Per esempio, il progetto di riconversione professionale; o il progetto d'inserimento lavorativo).
Due ingiunzioni che portano molti alla disillusione, dopo un'altra sconfitta.
Raccomandazioni: non “inseguire i bandi”, non inventare progetti sulla base di opportunità che derivano da call o avvisi, ma - per quanto possibile - adattare ai bandi idee progettuali già mature; (soprattutto) non “leggere” il bando come occasione di sopravvivenza: si risponde a una call quando si è forti, non quando si è deboli.
III. Il tecnicismo delle procedure
Ciò che caratterizza l'andatura del progetto è il suo carattere fluttuante, il suo percorso incerto, la continua presa d'atto della complessità. Proprio tentando di ricondurre l'incertezza alla pianificazione, si può arrivare all'utilitarismo delle procedure, all'ossessione tecnicista, che soffoca l'ispirazione iniziatrice.
Raccomandazioni: gli strumenti di project management (sono tanti, sono utili, sono da usare) non devono diventare una gabbia che costringe il progetto e lo rende immodificabile; al contrario, proprio un progetto ben costruito e pianificato sin dall’inizio, può più facilmente essere migliorato e adattato alle esigenze emerse sul campo, senza correre il rischio di perderne il controllo; gli strumenti di governo del progetto sono un mezzo non il fine.
IV. Il totalitarismo della concezione pianificatrice
Quando l'ideazione diventa dominante sulla realizzazione (e non ammette scarto né improvvisazione), si privilegia un modello rigido, che può condurre a un progetto totalitario: una troppo grande rigidità nella relazione tra quanto è stato progettato e quanto deve essere realizzato può avere ricadute molto negative.
Il buon sviluppo di un progetto risiede nella consapevolezza che il lavoro di ideazione porta con sé i propri limiti: nella realizzazione, occorre fare i conti con molti imprevisti e occorre improvvisare e scostarsi da quanto programmato per superarli.
Raccomandazioni: idee molto chiare, ben declinate ed espresse in fase di pianificazione, sono la miglior garanzia di poter gestire con efficacia i cambiamenti che senza dubbio il percorso progettuale ci chiamerà a introdurre in corso d’opera; nell’impostazione iniziale del budget di progetto, è bene garantirsi la possibilità di una gestione almeno in parte flessibile, per poter affrontare bisogni emergenti in corso d’opera.
V. Il culto dell'autosoddisfazione
Un'altra patologia possibile indicata da Boutinet fa riferimento al narcisismo che può colpire chi opera nel progetto. Una deriva che rischia di verificarsi ogni volta che si consegue un buon risultato, del quale l'autore del progetto tende ad assumersi un po' troppo in fretta la paternità.
Tra il conseguimento dell'ideale intrinseco del progetto e il narcisismo del suo artefice c'è un legame forte, che può portare a un appiattimento sul progetto stesso, che diventa oggetto autoreferenziale.
Quando l'ideale che muove il progetto riesce a smarcarsi dai rischi di narcisismo e a evitare l’autosoddisfazione, il progetto mantiene un senso e un dinamismo rinnovatore.
Raccomandazioni: il progetto “perfetto” è quello che scompare nel flusso delle ricadute positive che genera; oltre ogni tentazione di autoreferenzialità, è utile ancorare il progetto al disegno delle politiche pubbliche, creare connessioni con altri progetti, connettere le iniziative progettuali con le spinte e le proposte che nascono dal basso, nel “territorio” progettuale; il progetto deve mettersi al servizio del cambiamento e non pensare di rappresentarlo.
VI. Il progetto come esca
Può accadere che il progetto sia usato come esca: lo scopo del progetto lascia intravedere audaci e ambiziose prospettive, ma solo una parte infima di queste verrà realizzata o addirittura nessuna (il progetto resta sulla carta). Il progetto, nella sua descrizione, esprime l'immaginario del suo autore e trova la sua giustificazione in se stesso: non diventerà mai un "oggetto" compiuto.
Raccomandazioni: fin dalla stesura del progetto, attraverso gli idonei strumenti di project management, occorre declinare l’idea progettale in azioni e attività; occorre indicare per ciascuna di esse i tempi di realizzazione; è necessario individuarne i risultati attesi misurabili; è fondamentale mettere a punto un realistico e analitico budget preventivo; è fondamentale che questi elementi siano connessi tra loro e che il tutto sia chiaramente comprensibile e coerente.
VII. Il plagio o la copia conforme
Molti progetti non sono che copie conformi a modelli esistenti: innovano su alcuni dettagli, ma sostanzialmente fluiscono nelle idee dominanti e nei condizionamenti culturali generali.
Questo accade quando si crea un disequilibrio tra quanto indotto dal contesto di intervento e quanto introdotto dall’esterno. A partire da una troppo frettolosa e superficiale analisi dell’ambiente, i promotori del progetto valorizzano poco o nulla quanto emerge dal contesto e dalla comunità di riferimento. Al contrario, i promotori introducono massicciamente nel progetto degli elementi estranei, presi in prestito da altre situazioni ed esperienze. Il costruito risulterà artificiale, slegato dall'ambiente di riferimento e di intervento.
Raccomandazioni: la tecnica del copia e incolla non funziona; è utile fare bracconaggio di idee e fare benchmarking; non per copiare: ma per rubare, smontare, ricucire, adattare in base alle esigenze locali e al contesto; le esperienze degli altri sono utilissime e vanno studiate, ma occorre fare co-design e co-management del progetto con il territorio e la sua comunità: più collaborazione che partecipazione, molta immaginazione e co-produzione.
VIII. L'attivismo ipomaniacale
L'attivismo ipomaniacale trasforma un individuo o una organizzazione in un attore alla continua ricerca di nuovi progetti, che sostituiscano quelli attuali appena avviati. Si tratta di un attore che, dice Boutinet, "vive in un effimero perpetuo" (punta sul nuovo continuamente) e che "genera intorno a se stesso una sorta di obsolescenza generalizzata" (i progetti diventano subito vecchi). L'attivismo ipomaniacale è anche sostenuto dalla cultura tecnologica (dell'innovazione continua) in cui siamo immersi e può coinvolgere molte persone e soggetti, che si lanciano in una moltitudine di imprese senza concluderne alcuna.
Raccomandazioni: la corsa a nuovi progetti da acquisire a tutti i costi è un approccio di corto respiro; è più utile lavorare sulla continuità e la sostenibilità dei progetti; è interessante e produttivo lavorare a progetti di medio-lungo periodo: un tempo abbastanza lungo per allargare la collaborazione a nuovi partner, sperimentare, monitorare, valutare e riprogrammare; e rilanciare; e creare le condizioni per la continuità delle innovazioni introdotte.
IX. Il progetto alibi
Capita che il progetto offra l'illusione della trasparenza o di un approccio partecipativo per meglio dissimulare l’intento di conservazione dell’esistente. In questo caso, la realizzazione effettiva del progetto è secondaria rispetto a quanto annunciato in fase di ideazione e il progetto stesso diventa un alibi per cambiare nulla.
Raccomandazioni: occorre fare della costante, trasparente e capillare rendicontazione pubblica di quanto si realizza un metodo di lavoro: la comunicazione è innanzi tutto uno strumento organizzativo che costringe costantemente a pianificare, a monitorare, a verificare la coerenza con cui si procede, per poter render conto agli altri di quello si fa.